Nel XXI secolo, l’uso della guerra per risolvere le dispute internazionali denota la negazione dell’evoluzione socioculturale degli individui e segna, ancora una volta, una frattura tra l’agire del potere politico e la volontà del popolo; la guerra è la negazione di una delle prerogative qualificanti dell’uomo, la ratio.
In àmbito internazionale e in quello interno non esistono “cause giuste”, che motivino il ricorso alla forza brutale e violenta per aver ragione in una contesa, ma “circostanze” che nel tempo si producono e che modificano gli assetti pregressi e, perciò, sono meritevoli di attenzione e bisognose di sistematica mediazione per un’equa, duratura e pacifica convivenza.
L’invasione di uno Stato, giustificata con la preoccupazione che in quest’ultimo possano insediarsi forze nemiche e dal quale far partire attacchi compromettenti la sicurezza di un paese limitrofo, è legittimo. Tuttavia, il diritto alla difesa della sicurezza dovrebbe essere esteso a tutti e non solo agli Stati più forti, o meglio a quelli che si sono costruiti un più ampio consenso internazionale o lo hanno imposto.
Se andiamo indietro negli anni possiamo ricostruire i principi ispiratori della politica estera statunitense. Essi sono sistematizzati e sintetizzati in tre principali dottrine, quella Monroe del 1823, quella Roosvelt del 1924 e quella Truman del 1949.
Con la prima si sanciva l’intolleranza dei tentativi delle potenze europee a fondare colonie nel continente americano: con essa si stigmatizza tanto la non ingerenza europea, quanto l’implicito riconoscimento dell’America latina come area di propria influenza geopolitica, quella porzione del Nuovo Continente che nei secoli sarà considerata il patio traseo degli USA.
Con la seconda fu data un’interpretazione più estensiva della precedente, giacché la trasformò da diffida all’intervento sul suolo del continente in legittimità dell’azione politico-militare nell’emisfero occidentale dell’Europa.
La terza, la dottrina Truman, nata con lo scopo di giustificare l’ingerenza statunitense nelle politiche estere dei paesi stranieri per bloccare l’espansionismo sovietico in Grecia e in Turchia, nel corso degli anni ha legittimato l’uso della forza militare statunitense per combattere guerre in territori oltre oceano, motivandole come necessità di difendere l’integrità e la sicurezza nordamericana, in altre parole di fatto essa ha legittimato gli USA a consolidare i proprî interessi geopolitici nel mondo.
Tutte sono state riconosciute dalla comunità politica e mediatica internazionale.
In ragione di essa, le truppe statunitensi hanno condotto guerre in Sudamerica, in Asia e in Europa. Solo per citare i casi più palesi e noti all’opinione pubblica mondiale, nella storia recente del secolo scorso si segnalano gli interventi nella Repubblica Dominicana (1965), a Grenada (1983), a Panamá (1989), la guerra in Kosovo (1998) – fatta dagli Europei per conto degli Statunitensi -, la Prima guerra del Golfo (1990), l’invasione dell’Afghanistan (1991), la Seconda guerra del Golfo (2003), combattute per consolidare la propria sfera d’influenza in America e nell’area nordafricano-asiatica che partiva dal Maghreb, passava per il Mashrek, e si estendeva a Turchia, Irak, Iran ed Afghanistan, cioè nella zona meridionale di contenimento della avanzata sovietica, prima, e russa, dopo.
Nelle citate circostanze, il diritto alla tutela della sovranità nazionale, oggi invocato dall’Ucraìna e difeso dai governi europei e nordamericano, fu sospeso a favore del più generale interesse della “area d’influenza strategica” disegnata dall’ordine mondiale scaturito dagli accordi di Yalta (1945), prima, e dalla dissoluzione dell’URSS (1991), dopo.
Sulla scorta di tali premesse, non si comprende perché debba essere considerata illegittima l’opposizione della Russia all’ingresso dell’Ucraìna nella NATO, la cui presenza comporterebbe un’evidente minaccia straniera alle porte di Mosca e alla propria area d’influenza. Richiesta legittima che, però, necessita di negoziati, di buon senso tra le parti contendenti (USA, Europa e Russia), in particolar modo dagli USA, come asimmetricamente accadde nel 1962 quando i Sovietici tentarono di installare i propri missili a Cuba.
È doveroso ribadire che se una dottrina è applicata ed è accettata da un insieme di Stati, essa deve diventare prerogativa comune a quei paesi che svolgono un ruolo mondiale e/o regionale nell’àmbito dell’ordine internazionale, in caso contrario diviene un espediente, condiviso tra governi interessati, per scardinare l’ordine mondiale esistente e riconfigurarlo a proprio vantaggio]
Nel 2022, quando i sistemi ed i mezzi di comunicazione sono talmente rapidi da annullare il tempo tra il fatto accaduto e quello narrato, sino ad oggi, la diplomazia dei paesi “che contano” ha fallito oppure ha deciso di fallire, allo scopo di ridimensionare le ambizioni del nemico Putin?
Il nostro ministro degli esteri, Luigi di Maio, assieme a quelli europei e nordamericani, ha annunciato l’interruzione di qualsivoglia trattativa col governo russo, giacché quest’ultimo ha messo in atto un’azione violenta contro l’Ucraìna. Ma è proprio in tali circostanze estreme che si manifesta appieno la necessità, la capacità e la validità di un’azione diplomatica volta a ricomporre il conflitto ed a portare le parti contendenti al tavolo delle trattative, allo scopo di evitare, in loco, inutili spargimenti di sangue e rovine, e, in àmbito mondiale, conseguenze assai più dannose, imprevedibili e capaci di estendere il conflitto ad aree più vaste; la Prima Guerra Mondiale docet, o almeno dovrebbe insegnarci qualcosa.
Di fronte ad un conflitto che dovesse durare nel tempo ed a mano a mano coinvolgesse altri attori della scena geopolitica mondiale, quale sarà la posizione della Cina, già oggi larvatamente espressa?
Fatta qualche eccezione (Giappone, Corea del Sud ed Australia) Cina e Russia, per contiguità territoriale e per comunità di interessi, tendono ad egemonizzare nell’area economico-politica asiatica e cioè quella compresa tra gli oceani Pacifico ed Indiano.
All’incapacità della diplomazia politica, voluta o manifestata, si è associata quella del “Quarto Potere”. La maggior parte della stampa italiana, ancor più di quella francese, tedesca e spagnola, si sta limitando alla narrazione della cronaca quotidiana e non si cimenta nell’interpretazione dei fatti e delle circostanze, pregressi ed odierni, interni ed internazionali, che li hanno prodotti.
La sola narrazione della “cronaca nera” fa venire meno il ruolo che la società del XX e del XXI secolo hanno attribuito ad essa, cioè quello di svelare agli occhi del lettore poco informato i fatti ed i retroscena che li hanno prodotti, né aiuta la formazione di una coscienza pacifista, ma radicalizza le posizioni popolari quando l’informazione è appiattita su angoli di visuale di parte.
Autonomia di pensiero, libertà di espressione, obiettività interpretativa sono solo alcuni degli elementi basilari per la formazione di una coscienza pacifista degli individui e per la soluzione negoziale delle questioni. Ripeto, la soluzione diplomatica non eviterebbe solo le tragiche morti di una guerra, ma anche le conseguenze disastrose su scala mondiale.
Nicolino Castiello
Già ordinario di Geografia economico-politica alla Federico II di Napoli
Copertina: Fonte ISPI
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